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Le nuove frontiere del diversity management nelle aziende

"Diversità, equità, inclusione, diversity management": sono queste le nuove parole che circolano nelle aziende. Ma sappiamo davvero di cosa si tratti? (di Mara Rinner)




Cosa intendiamo per "diversità"?


In prima battuta possiamo definire “diversità (o differenza)” uno o più elementi/aspetti che distinguono in termini qualitativi e/o quantitativi un individuo o un gruppo.

Questo concetto coinvolge dunque gli esseri umani in quanto tali, nel loro complesso, in tutti gli aspetti della vita, anche quello professionale.

Il presupposto su cui poggia l’individuazione delle diversità fra una persona ed un’altra è il concetto di identità, di riconoscimento di sè come esseri unici, con caratteristiche specifiche che variano nel tempo e nello spazio.

In prima approssimazione possiamo raggruppare le aree della diversità nelle seguenti categorie: genere, orientamento sessuale, età, disabilità, differenze etniche/culturali.

Secondo quanto teorizzato da Loden e Rosener, alcune afferiscono ad una dimensione innata e in qualche modo non modificabile (dimensioni primarie della diversità), altre derivano invece da elementi acquisiti, spesso per questioni di tipo culturale (dimensioni secondarie della diversità).

Nella gestione delle diversità è inoltre fondamentale non sottovalutare il fatto che le persone sono spesso portatrici (anche in modo simultaneo) di più dimensioni di diversità, e non considerarne l’intersezionalità può portare ad errori di valutazione o trattamento.


La diversity, equity and inclusion nel mondo del lavoro

 

Essendo le aziende e le istituzioni delle organizzazioni di individui, la comprensione e gestione delle diversità di cui collaboratori e collaboratrici sono portatori e portatrici rappresenta un fattore chiave sotto molti punti di vista.

Se da un lato saper gestire le diversità può contribuire ad un miglioramento del cosiddetto benessere organizzativo della forza lavoro, dall’altra porta con sé innumerevoli vantaggi economici e di sviluppo del business per le aziende.

 

Il “diversity management”

 

Negli anni ’80, nel mondo delle organizzazioni del Nord America (USA e Canada) si è sviluppato il cosiddetto “diversity management”, volto a gestire la coesistenza tra le numerose e diverse culture nazionali derivanti dalle diverse etnie e razze presenti.

La disciplina arriva in Italia a partire dagli anni ’90, grazie alle multinazionali che pongono dapprima attenzione alla dimensione delle differenze di genere, per dare poi l’avvio ad un modello che diventa via via riferimento anche per altre dimensioni della diversità.

Nel corso del tempo, fenomeni come la globalizzazione, i cambiamenti nei rapporti di genere e quelli demografici, le migrazioni e l’innovazione tecnologica hanno aumentato l’attenzione nei confronti di questo tema.

Il punto di partenza del “diversity management” è la consapevolezza che ogni soggetto è portatore di molte e plurali caratteristiche e che le differenze possono portare valore. L’obiettivo è dunque quello di migliorare l’ambiente lavorativo al fine di raggiungere gli obiettivi aziendali, ponendo in essere delle misure (politiche, pratiche, iniziative più o meno formalizzate) per gestire e valorizzare dette diversità.

A livello organizzativo, le dimensioni della diversità possono essere suddivise in: interne (legate cioè a caratteristiche precise dell’individuo), esterne (riferite all’ambiente, alle esperienze fatte, alla famiglia di provenienza, ai percorsi educativi, ecc.) e organizzative (riferite al contenuto specifico del lavoro, al livello contrattuale, alla seniority, ecc.).

In una ricerca effettuata nel 2020 da ISTAT e UNAR dal titolo “Il diversity management per le diversità LGBT+ e le azioni per rendere gli ambienti di lavoro più inclusivi”, è stato stimato che “nel 2019, oltre un quinto delle imprese italiane abbia adottato almeno una misura non obbligatoria per legge con l’obiettivo di gestire e valorizzare le diversità tra i lavoratori legate a genere, età, cittadinanza, nazionalità e/o etnia, convinzioni religiose o disabilità

 Lo stesso studio dell’ISTAT, ci dice inoltre che la maggior attenzione delle imprese italiane è rivolta soprattutto alle dimensioni di diversità correlata alla differenza di genere e alla disabilità (implementate in media rispettivamente dal 12,7% e dal 15,9% delle aziende), seguite dalle diversità per età (10,4%), cittadinanza, nazionalità e/o etnia (9,7%) e convinzioni religiose (9%).

È necessario considerare tuttavia, che le percentuali cambiano a seconda delle dimensioni aziendali – più piccole sono le aziende, minori sono gli ambiti presi in considerazione – e ubicazione sul territorio nazionale – il Diversity management è più diffuso al nord e centro Italia, rispetto al sud del Paese.

Scendendo nell’analisi delle motivazioni per le quali le aziende approcciano il “diversity management” possiamo elencare tre fattori principali (seminario Poggio-Tuselli):

-        una dimensione etica, che parte dall’assunto che sia corretto farlo;

-        una dimensione normativa, che lo impone perché previsto dalla legge;

-        una dimensione economica, che porta a considerare il vantaggio competitivo o il contesto sociale premiante.

 

Dal “diversity management” alla “Diversity, equity and inclusion”

 

Negli ultimi anni, gli studi e le ricerche sulla “diversity” si sono mossi dal semplice concetto di “management della diversità” inteso come gestione delle differenze fisiche o socio-culturali in modo da intercettare i diversi bisogni ed esigenze espresse, per spostarsi verso altri due costrutti fondamentali: “il primo è l’Equità, vale a dire la gestione delle persone in termini sia di opportunità che di risultato; il secondo è l’Inclusione e si riferisce alla creazione di una cultura che promuova l’appartenenza e la valorizzazione dei diversi gruppi/categorie di lavoratori e lavoratrici.” (Adele Mapelli)

I tre concetti risultano fortemente correlati tra loro in quanto le pratiche di inclusione possono supportare il sentimento di equità in grado di sviluppare senso di appartenenza e generare motivazione, incoraggiando dunque ogni individuo a collaborare alla vita organizzativa mantenendo il proprio carattere di unicità, che sta alla base della “difesa delle diversità”.


 



 

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